“Io credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucarestia, negli insegnamenti dell’Evangelo. Credo, ovvero non faccio mio quanto la Chiesa dice al riguardo per affermarlo come si affermano dati dell’esperienza o teoremi di geometria, ma aderisco con l’amore alla verità perfetta, inafferrabile, racchiusa in tali misteri, e cerco di aprirle la mia anima affinchè la sua luce possa penetrare in me.
Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero. Le riconosco la missione, in quanto depositaria dei sacramenti e custode dei testi sacri, di formulare decisioni su alcuni punti essenziali, ma soltanto a titolo di indicazioni per i fedeli. Non le riconosco il diritto d’imporre i commenti di cui circonda i misteri della fede come se fossero verità; e ancor meno il diritto di usare la minaccia e il timore esercitando, per imporli, il suo potere di privare dei sacramenti.
Per me, nello sforzo della riflessione, un disaccordo apparente o reale con l’insegnamento della Chiesa è soltanto motivo di sospendere a lungo il pensiero, di spingere il più lontano possibile l’indagine, l’attenzione e lo scrupolo, prima di osare affermare qualcosa. Ma è tutto. Detto questo, io medito su ogni problema relativo allo studio comparato delle religioni, sulla loro storia, sulla verità contenuta in ciascuna di esse, sui rapporti della religione con le forme profane della ricerca della verità e con l’insieme della vita profana, sul significato misterioso dei testi e delle tradizioni del cristianesimo; e tutto ciò senza preoccupazione alcuna di un possibile accordo o disaccordo con l’insegnamento dogmatico della Chiesa.
Sapendomi fallibile, sapendo che tutto il male che per debolezza lascio sussistere nella mia anima vi produce necessariamente una quantità proporzionale di menzogna e di errore, io dubito in qualche modo persino delle cose che mi appaiono più manifestamente certe. Ma tale dubbio concerne in pari misura tutti i miei pensieri, quelli che sono in accordo come quelli che sono in disaccordo con l’insegnamento della Chiesa.
Spero e conto fermamente di rimanere in siffatto atteggiamento fino alla morte. Sono certa che questo linguaggio non racchiuda alcun peccato. E’ pensando diversamente che commetterei un crimine contro la mia vocazione, che esige un’assoluta probità intellettuale. Nè posso discernere alcun movente umano o demoniaco all’origine di un simile atteggiamento. Esso può produrre solo pene, sconforto morale e isolamento. Soprattutto non ne può essere causa l’orgoglio ; perchè non c’è nulla che possa lusingare l’orgoglio in una situazione in cui si è agli occhi dei non credenti un caso patologico, dal momento che si aderisce a dogmi assurdi senza neppure la scusa di subire un’influenza sociale; mentre si ispira ai cattolici la benevolenza protettrice, un poco sdegnosa, di chi è arrivato verso chi è in cammino.
Non vedo dunque alcuna ragione di respingere il sentimento che è in me, cioè di perseverare in tale atteggiamento per obbedienza a Dio; se lo modificassi offenderei Dio, offenderei il Cristo, il quale ha detto: <<Io sono la verità>>. D’altra parte, già da molto tempo io provo un desiderio intenso e sempre crescente della comunione. Se si considerano i sacramenti un bene, se io stessa li considero tali, se li desidero, e se mi vengono rifiutati senza alcuna colpa da parte mia, non è forse questa una crudele ingiustizia?
Se mi si accordasse il battesimo, malgrado l’atteggiamento in cui persevero, si romperebbe con una consuetudine che dura da almeno diciassette secoli. Se questa rottura è giusta e desiderabile, se ci si rende conto che proprio oggi è di una urgenza più che vitale per la salvezza del cristianesimo – cosa che a me pare evidente – bisognerebbe allora, per la Chiesa e per il mondo, che si verificasse in forma eclatante, e non per iniziativa isolata di un prete disposto ad amministrare un battesimo oscuro e isolato.
Per tale motivo e per molti altri analoghi, fino ad ora non ho mai rivolto a un prete la domanda formale del battesimo. E non intendo farlo neppure ora. Tuttavia sento il bisogno – non astratto, ma pratico, reale, urgente – di sapere se, nel caso io lo domandassi, mi sarebbe accordato o rifiutato.”
(Simone Weil, Parigi 3 febbraio 1909 – Ashford 24 agosto 1943)
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